Mese: Agosto 2023

Mindfulness e benessere

Cos’è la mindfulness? 

La riposta più semplice potrebbe essere: la pratica del prestare attenzione, sapere dov’è e poter scegliere dove dirigerla. Una definizione un po’ più tecnica potrebbe essere l’«allenamento dell’attenzione» o la «regolazione dell’attenzione». 

Si potrebbe anche dire che la mindfulness è una forma di «meditazione di consapevolezza» ampiamente praticata da millenni, anche se negli ultimi anni si è assistito a una vera esplosione dell’interesse e delle ricerche a riguardo, sia in ambito clinico, sia per le applicazioni alla vita quotidiana. Dietro alla sua improvvisa diffusione come stile di vita e come interesse clinico, c’è però una storia millenaria.

Con il termine mindfulness o consapevolezza, si indica una pratica con cui ci si sforza di focalizzarti sul momento presente e osservare con la massima attenzione ciò che accade nell’esperienza in cui ci si trova e nelle immediate vicinanze. La mindfulness consiste anche nell’accettare le proprie esperienze senza esprimere giudizi. Per esempio, spesso quando si cammina per strada si ha in mente ciò che è successo poco prima o ciò che succederà dopo, oppure si guarda il telefonino per controllare un messaggio, ma non si è concentrati sul momento presente.

Camminare in modo consapevole significa concentrare l’attenzione sul movimento dei piedi, sulla sensazione muscolare, sul vento freddo sulla pelle, sui colori e i suoni che circondano la persona e ogni altra esperienza sensoriale, come gli odori o perfino la stessa respirazione. 

Secondo un recente studio dell’Università di Harvard, la cosa che rende più felici è semplicemente prestare attenzione a ciò che si sta facendo (Killingsworth e Gilbert, 2010). Potrebbe sembrare strano dato che in genere si pensa che sognare a occhi aperti, specialmente in caso di sogni piacevoli, sia divertente e porti buonumore. 

La mindfulness si pratica per imparare a prestare attenzione al momento presente. Capita spesso, infatti, di andare in una stanza e poi dimenticarsi perché ci si trovi in quel luogo o di andare in auto da qualche parte, ma non ricordare il viaggio; o ancora, durante una conversazione con qualcuno, scoprire all’improvviso che non si è ascoltato neanche una parola di ciò che l’altro stava dicendo. O ancora di leggere un libro e accorgersi a metà capitolo di non aver assimilato neanche un vocabolo. Ecco, questo e ciò che succede quando “non si è consapevoli” nel momento in cui si sta svolgendo un’azione.

La tendenza a non essere completamente presenti alla vita, può avere diverse conseguenze importanti e può far perdere l’occasione di realizzare a pieno il proprio potenziale di vita.

Essere “non consapevoli” significa sprecare la vita, perdere informazioni importanti, rischiare più infortuni e più incidenti, peggiorare i rapporti con gli altri, comunicare in modo più superficiale. Inoltre questo rende più infelici di quanto ci si rende conto e più esposti allo stress e ai problemi psicologici, con tutte le conseguenze fisiche e negative che possono derivarne.

Se la “non consapevolezza” sia più diffusa oggi che in passato è difficile a dirsi, ma quello che si sa è che le persone oggi vivono la propria vita dominati dalla fretta, dove la parola d’ordine sembra essere “correre!”, dalla nascita alla morte, senza pensare veramente a quello che sta nel mezzo.

Se non si viene distratti dalla fretta, a volte lo si è dalla noia e dall’inerzia.

Diventare consapevoli del proprio presente è molto semplice, dipende solo da un costante allenamento e una costante pratica della mindfulness.

Attraverso la mindfulness, si acquisisce la capacità di prestare attenzione e riuscire a scegliere dove dirigerla.

A chi può essere utile?

La mindfulness è stata utilizzata con successo per aiutare persone affette da una varietà di condizioni, tra cui il dolore cronico e la depressione.

La mindfulness ha molte applicazioni pratiche in cui si dimostra assai utile, compresi i seguenti ambiti:

salute mentale: prevenzione delle ricadute nella depressione, ansia, disturbo di panico, stress, regolazione emotiva e promozione dell’intelligenza emotiva, miglioramento della qualità del sonno, disturbi di personalità, dipendenze;

neurologico: cambiamenti strutturali e funzioni nel cervello, neurogenesi (incremento della capacità del cervello di generare nuove cellule cerebrali), miglioramento del funzionamento esecutivo, miglioramento della circolazione sanguigna e possibile prevenzione della demenza;

clinico: gestione del dolore, controllo dei sintomi, fronteggiamento di malattie come il cancro, benefici metabolici, alterazioni ormonali e cambiamenti nella funzione e nella riparazione genetica;

prestazionale: sport, studio e leadership;

spirituale: pace profonda, percezione netta (insight), unità.

Come si pratica? 

La scansione corporea è l’esercizio di consapevolezza più praticato e, in genere, il migliore per cominciare. 

Si inizia prendendo coscienza dell’intero corpo lansciando che si quieti. Poco alla volta si prende consapevolezza di ciascuna parte del corpo, partendo dai piedi. Si lascia che l’attenzione resti lì per un po’, percependo tutto quel che c’è da percepire. Quindi, si lascia che l’attenzione passi alle gambe, allo stomaco, alla schiena, alle mani, alle braccia, alle spalle, al collo e alla faccia, fermandosi un po’ su ciascun punto. Il tempo da dedicare a ciascuna parte dipenderà dal tempo complessivo che si vuole dedicare alla pratica. Il fine di questo esercizio è lasciare che l’attenzione si soffermi su ciascuna parte del corpo, prendendo semplicemente atto di quel che succede in quel punto, quali sensazioni si presentano momento per momento. In questo modo ci si esercita a coltivare un atteggiamento di consapevolezza imparziale.

Altre forme di «meditazione di consapevolezza» includono: l’attenzione al respiro e l’ascolto consapevole. Si può praticare la meditazione di consapevolezza anche con gli altri sensi, compresi il gusto e l’olfatto.

Come iniziare?

Per chi si accosta alla mindfulness per la prima volta, una buona «dose iniziale» potrebbe essere un esercizio di 5 minuti per due volte al giorno. La durata dell’esercizio può essere portata a 10, poi a 15, poi a 20 fino anche a 30 minuti o più, eventualmente, a seconda della disponibilità di tempo, della motivazione, delle necessità e dell’impegno.

In molti programmi che utilizzano la meditazione di consapevolezza per gestire disturbi come una forte depressione ricorrente o un dolore cronico, la durata della pratica è di circa 40 minuti al giorno.

Per la meditazione si raccomanda la posizione da seduti, perché in verticale è più difficile addormentarsi. Si può praticare a occhi aperti, ma chiudendoli è più facile far entrare in gioco gli altri sensi, quelli che di solito si trascurano.

Le persone pensano spesso che la mindfulness sia un esercizio di rilassamento poiché, non di rado, quando la si pratica ci si rilassa. In realtà è innanzitutto una pratica di allenamento dell’attenzione, e il rilassamento è più che altro un effetto collaterale (desiderato).

Come nasce la mindfulness?

Si crede erroneamente che la mindfulness nasca dalle tradizioni orientali, mentre in realtà anche l’Occidente ha una ricca storia di contemplazione e ricerca della quiete interiore.

La pratica della meditazione è stata divulgata per la prima volta in Occidente alla fine degli anni Cinquanta, quando Maharishi Mahesh Yogi introdusse in California la meditazione trascendentale.

 La meditazione divenne un fenomeno di tendenza nella cultura giovanile degli anni Sessanta, fortemente bisognosa di un senso esistenziale profondo. 

Nel decennio successivo, Herbert Benson condusse all’Università di Harvard le prime ricerche scientifiche sull’antico fenomeno della meditazione che ora faceva tendenza. Benson capì che la meditazione produce una risposta contraria a quella dello stress e introdusse l’espressione «risposta di rilassamento» nel suo famoso libro sull’argomento, The relaxation response (Benson, 1975).

È possibile ricevere maggiori informazioni su questa tecnica, formulando una richiesta attraverso l’area “contatti” presente in questo sito. 

Articolo curato da:

Dott. Samuele Russo – Psicologo, Psicoterapeuta, Psicoterapeuta EMDR, Dottorando di Ricerca in Neuroscienze del Comportamento

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Gli attacchi di panico

L’attacco di panico è la forma più acuta e intensa dell’ansia e ha le caratteristiche di una crisi che, pur durando generalmente non più di alcuni minuti, è così spiacevole da terrorizzare la persona al solo pensiero che una simile esperienza possa ricapitargli nuovamente.

Nel corso della vita occasionalmente può capitare a tutti di vivere uno o più attacchi di panico, specie in momenti particolarmente stressanti o di intensa attivazione emotiva. Questo di per sé non significa che la persona soffra di un disturbo di panico.
Quando invece simili episodi si presentano ripetutamente, in maniera del tutto inaspettata e imprevedibile, provocando la sensazione di perdita di controllo su di sé e sul mondo insieme alla necessità  di mettere in atto evitamenti che limitano notevolmente le normali attività  quotidiane, siamo di fronte a un disturbo che può necessitare di un trattamento psicoterapeutico.
La persona può ritrovarsi, per esempio, nell’impossibilità  di guidare, prendere un aereo, frequentare luoghi chiusi o spazi affollati, allontanarsi da luoghi conosciuti se non accompagnati da persone di fiducia, ecc, nel tentativo di evitare tutte quelle situazioni che teme potrebbero innescare un attacco di panico, caratterizzato da segnali corporei intensi (accelerazione del battito cardiaco, fame d’aria, nausea, tremori, secchezza alla gola, ecc), vissuti come minacciosi.
In questi casi livelli intensi di ansia anticipatoria, insieme a comportamenti di evitamento, rischiano di interferire notevolmente col funzionamento relazionale, sociale e lavorativo, limitando la libertà  di azione e di espressione del soggetto.

Gli attacchi di panico sono un disturbo molto diffuso, di cui l’OMS stima ne soffra fino al 3% della popolazione mondiale. Mentre i meccanismi di auto-mantenimento appaiono ormai riconosciuti, non sembrano esservi posizioni univoche rispetto alle cause, che dunque potrebbero dipendere da molteplici fattori soggettivi.

Per il trattamento appaiono particolarmente indicate tecniche psicoterapeutiche che si avvalgono del contributo di altre discipline, quali la mindfulness, tecniche di rilassamento corporeo e respirazione controllata, ecc.
L’intervento di uno psicologo psicoterapeuta può essere d’aiuto inoltre nel riconoscere i fattori sottostanti al panico, promuovendo la costruzione di strategie più funzionali e meno limitanti per gestire l’attivazione di emozioni intense.

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Dott. Samuele Russo – Psicologo, Psicoterapeuta, Psicoterapeuta EMDR, Dottorando di Ricerca in Neuroscienze del Comportamento

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Ansia e paura nell’adulto

L’ansia e la paura sono emozioni comuni e fondamentali: ci informano di situazioni spiacevoli e allarmanti e ci guidano a individuare il comportamento più utile a difenderci dai pericoli o fuggire.
Possono però diventare esagerate e fuori luogo quando si attivano e perdurano nonostante sia cessato il pericolo o quando invece si presentano ancora prima del rischio di un pericolo concreto, anche solo pensando che potrebbe accadere qualcosa di potenzialmente minaccioso.
In questi casi emozioni così apprezzabili per la nostra stessa sopravvivenza rischiano invece di compromettere il benessere personale, limitando il normale funzionamento relazionale, lavorativo e sociale.
Le persone, per esempio, possono smettere, anche improvvisamente, di praticare sport che prima amavano, oppure evitare di muoversi in macchina, specialmente in autostrada o in percorsi sconosciuti, possono trovare molto stressanti situazioni prima gestibili, o provare ansia al solo pensiero di affrontare una situazione ecc.

I sintomi dell’ansia

Frequentemente possono anche insorgere uno o più sintomi tipicamente ansiosi, quali:

  • tachicardia ansiogena
  • eccessiva sudorazione
  • disturbi dell’apparato gastro-intestinale
  • insonnia
  • sensazioni di difficoltà  respiratoria
  • costrizione sul petto
  • sensazione improvvisa di panico, senza un motivo apparente
  • paura di morire o paura di perdere il controllo o di impazzire
  • eccessiva preoccupazione per la propria salute fisica
  • pensieri ossessivi
  • smisurato senso di responsabilità
  • evitamento delle situazioni potenzialmente ansiogene
  • comportamenti compulsivi (es: lavaggio ripetitivo delle mani)
  • bisogno di eccessive rassicurazioni da parenti e amici
  • impossibilità  a frequentare contesti e spazi in cui non si percepiscono via di fuga
  • timore di non ricevere l’aiuto o il conforto necessari in caso di malessere

Nei casi in cui l’ansia assuma un carattere così intrusivo, l’intervento di uno psicologo psicoterapeuta può essere di giovamento per riconoscere la sorgente delle proprie preoccupazioni esagerate e per sviluppare, anche attraverso tecniche cognitivo-comportamentali o attraverso l’approccio sistemico-relazionale, modi nuovi per gestire l’ansia nelle diverse situazioni e nel proprio mondo emotivo, così da riuscire nuovamente a raggiungere gli obiettivi personali. Altrettanto utile può essere dare uno spazio approfondito di analisi al significato che questi sintomi possono avere. Spesso una difficoltà  comunica dei messaggi importanti, al fine di gestire l’ansia, attraverso un codice che non è immediatamente decifrabile. Una psicoterapia può essere determinante per trovare nuove chiavi di lettura che consentano di comprendere maggiormente se stessi utilizzando al meglio le proprie risorse.

Disturbo ossessivo-compulsivo

Il disturbo ossessivo-compulsivo è caratterizzato dalla presenza di pensieri intrusivi e sgradevoli, le ossessioni, che, manifestandosi ripetutamente nella mente, inducono la persona a mettere in atto dei comportamenti ripetitivi, i cosiddetti rituali, nel tentativo di ridurre il disagio, l’agitazione e l’ansia provocati dai pensieri ossessivi.
Chi soffre di DOC è spesso così spaventato e stanco dei pensieri involontari e dei continui rituali che non riesce a non mettere in atto che cerca di evitare molte situazioni che potrebbero innescare ulteriori pensieri ossessivi, al punto da sviluppare tutta una serie di limitazioni sia nella vita sociale che lavorativa.
L’intervento di uno psicologo psicoterapeuta può essere di sostegno nel riconoscimento e nella regolazione dei meccanismi mentali alla base del disturbo, favorendo lo sviluppo di modalità  nuove per gestire le sensazioni spiacevoli dell’ansia, senza dover ricorrere necessariamente ad evitamenti e rituali compulsivi. Il trattamento psicoterapeutico può aiutare a comprendere la natura delle difficoltà  e ad attivare le risorse per affrontarle.

Ipocondria

È caratterizzata da pensieri, vissuti con angoscia e paura, relativi al timore di avere una grave malattia, eventualmente non ancora diagnosticata. L’ansia e la preoccupazione non si attenuano nonostante accertamenti medici ripetuti abbiano escluso la presenza di una malattia. Spesso sensazioni o manifestazioni corporee banali vengono interpretati come segnali di un malessere preoccupante, per cui ogni rassicurazione risulta insoddisfacente. La facilità  di accesso tramite il web alle informazioni relative alle tante patologie può incrementare, inoltre, la tendenza a cercare autonomamente risposte aggiungendo confusione alla preoccupazione per se stessi.
La consulenza di uno psicologo psicoterapeuta può essere di supporto nel migliorare la consapevolezza del proprio funzionamento corporeo e mentale, al fine di correggere l’interpretazione disfunzionale dei segnali provenienti dal corpo.

Fobie

Si tratta di paure specifiche che si riferiscono a oggetti o circostanze che di fatto non rappresentano una reale fonte di pericolo. La persona che ne soffre riconosce la sua eccessiva preoccupazione ma reagisce evitando la fonte della paura stessa o cercando sostegno e rassicurazione in persone o oggetti. L’aiuto di uno psicologo psicoterapeuta può essere utile a comprendere meglio se stessi e le proprie emozioni, imparando ad utilizzare le risorse che possono consentire un diverso approccio alle situazioni ansiogene.

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La psicosomatica

Corpo e mente non sono due mondi separati, ma sono due parti, in continua influenza reciproca, di un tutt’uno: la persona nella sua unità somato-psichica.

In ambito medico è ormai largamente condivisa l’idea che il benessere fisico abbia una sua influenza su sentimenti ed emozioni e che a loro volta questi ultimi abbiano una certa ripercussione sul corpo. Non a caso il vecchio concetto di malattia intesa come effetto di una causa, è stato sostituito con una visione multifattoriale secondo la quale ogni evento (e quindi anche una affezione organica) è conseguente all’intrecciarsi di molti fattori , tra i quali sta assumendo sempre maggior importanza il fattore psicologico. Si ipotizza inoltre che quest’ultimo, a seconda della sua natura, possa agire favorendo l’insorgere di una malattia, o al contrario favorendone la guarigione.

La psicosomatica è quella branca della medicina che pone in relazione la mente con il corpo , ossia il mondo emozionale ed affettivo con il soma (il disturbo), occupandosi nello specifico di rilevare e capire l’influenza che l’emozione esercita sul corpo e le sue affezioni

L’ottica psicosomatica corrispondente ad una concezione della medicina che guarda all’uomo come ad un tutto unitario , dove la malattia si manifesta a livello organico come sintomo e a livello psicologico come disagio, e che presta attenzione non solo alla manifestazione fisiologica della malattia, ma anche all’aspetto emotivo che l’accompagna.

Si può affermare in conclusione che le malattie somatiche sono quelle che più strettamente realizzano uno dei meccanismi difensivi più arcaici con cui si attua una espressione diretta del disagio psichico attraverso il corpo. In queste malattie l’ansia, la sofferenza, le emozioni troppo dolorose per poter essere vissute e sentite, trovano una via di scarico immediata nel soma (il corpo). In queste persone non sono presenti espressioni simboliche capaci di verbalizzare il disagio psicologico e le emozioni, pur essendo presenti, non vengono percepite.

Le persone che tendono a somatizzare si presentano con pensiero sempre ricco di fatti e di cose e povero in emozioni. Difficilmente riferiscono sentimenti quali rabbia, paura, delusione, scontentezza, insoddisfazione. Spesso si tratta di persone che hanno difficoltà a far venire alla luce le proprie emozioni. La persona è incapace di accedere al suo mondo emotivo, ed ha difficoltà a percepire rabbia, frustrazione o stress per una difficile condizione lavorativa e neppure immaginare una possibile connessione tra la il suo disturbo fisico e le sue emozioni o i vissuti relativi al suo lavoro.

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